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Lettera di un viaggiatore

Lettera di un viaggiatore

Un viaggio per me atteso, quello intrapreso in India nell’agosto del 2007, da quando nel 2006 ho deciso di dare il mio contributo all’Associazione, dopo aver visto da vicino l’attività che svolge. Sentivo la spinta di “segnare” la mia vita recandomi personalmente nei posti dove presta la sua opera, per “respirare”, imprimere nel mio animo l’atmosfera, gli odori, gli sguardi di chi avrei incontrato, conoscerne la cultura e le sue usanze.

A partire dal nostro arrivo a Chennai (il nome indiano per Madras) il padre salesiano Charles Rathnasamy e padre Victor Antonyraj ci hanno fatto da guida e accompagnato scrupolosamente e amorevolmente durante tutto il viaggio. Dove non erano disponibili i loro Istituti per ospitarci tutti (eravamo in 19 persone) avevano provveduto a sistemarci in hotel, in alcuni casi anche lussuosi. Ma non era questo che certamente mi interessava: non ero andato in India per vivere una vacanza turistica con tutti i comforts occidentali, ero più interessato ad entrare nella vita dell’India.

E di vita ne ho vista, eccome!!! Le strade caotiche, sempre piene di gente che si muoveva a tutte le ore con ogni mezzo di locomozione: minitaxi affollati, auto rumorose, autobus strapieni, motorette rombanti che sfrecciano da tutte le direzioni e camion che continuamente suonavano il clacson, biciclette, perfino carri trainati da vacche con belle corna dipinte e soprattutto tanta gente a piedi.

I padri salesiani ci hanno accolto nelle loro scuole formative, Anbu Illam e istituti professionali dove abbiamo conosciuto realtà giovanili di abbandono familiare e disagio sociale.

Per quindici giorni tanti bambini e ragazzi (sia maschi che femmine), hanno colorato le nostre visite accogliendoci ogni volta con un caloroso benvenuto, offrendoci doni realizzati personalmente da loro, collane di fiori e allietandoci sempre con uno spettacolo di musica, danza o canti tradizionali.

Gli sguardi profondi, la gioia nei loro visi rimarranno per sempre scolpiti nella mia memoria. Come a Pondicherry l’incontro fra la nostra amica Roberta e Dharmaseelan, il bambino che ha adottato a distanza, una emozione indimenticabile. Reciproco imbarazzo e il desiderio di volersi toccare con il cuore l’una con l’altro, esperienza da cui io stesso ne sono rimasto profondamente commosso.

Così come è accaduto il 15 agosto, quando invitati presso la casa di Padre Raphael Jayapalan, nei sobborghi poveri di Chennai, numerosi bambini e ragazzi avevano organizzato per noi una bellissima festa con danze e recitazioni, nella quale ci è stato chiesto come un onore di consegnare loro i premi di fine anno scolastico. Un’accoglienza così calda da farmi sentirmi io stesso non meritevole di così tanta smisurata importanza. In fondo soltanto qualche matita colorata, qualche penna o piccoli materiali scolastici, ma il dono più grande era sentirsi onorati di riceverli da persone che arrivavano da così lontano!! Quanto entusiasmo, gioia, comunione consapevoli che in molte parti del mondo si pensa solo alla quantità, avendo perso quella genuinità e purezza di cuore.

Quella del villaggio dei lebbrosi di Athoor (oggi Toni-Pananthopu) è stata un’altra esperienza molto importante; ero entusiasta di verificare di persona lo stato di realizzazione delle case, essendone stato partecipe e avendone dedicato una ai miei genitori.

La gioia dipinta nei loro visi per l’attesa dei loro amici italiani, l’accoglienza offerta mi facevano rendere conto di quanto basti poco per creare un sincero legame che rimane fortissimo, seppur invisibile, anche a migliaia di chilometri di distanza.

In pochi giorni abbiamo percorso centinaia di chilometri sulle strade dell’India del Sud; abbiamo potuto ammirare la sua rigogliosa vegetazione tropicale del Kerala, i templi indù di Madurai e Tanjore, apprezzato il fascino e la grazia della danza classica indiana dove gli studenti e i professori della Scuola di Kalai Kaviri di Trichy, avevano preparato uno spettacolo per noi. Infine, il breve soggiorno di tre giorni a Bombai dove accompagnati dal salesiano P. Bernard abbiamo constatato con i nostri occhi gli spiccati e sconvolgenti contrasti tra la vita delle classi agiate e quella di interi quartieri di baracche (slums), fino a quella del popolo dei dhalit che vive e muore sui marciapiedi.

Dopo il rientro in Italia ho sentito il bisogno di alcuni giorni d’isolamento per assimilare bene l’esperienza fatta. Giorni pieni di riflessioni sulla mia e sulla loro vita, in cui risuonavano nella mia mente la parola “benefattore” (come ci consideravano ripetutamente in India).

Mi chiedevo: “Cosa in realtà diamo noi?” Diamo il superfluo o sentiamo veramente come atto d’amore quello che offriamo? E poi chi sono i “veri poveri”? Noi o loro?” Una domanda in particolare occupava la mia mente: “Chi aiuta chi?” Siamo noi ad aiutare loro o viceversa?”

Ho riflettuto molto (soprattutto dopo) sulle motivazioni che dovrebbero spingere ognuno di noi a fare un simile viaggio. Anche se non siamo tutti uguali, credo che sarebbe bene spogliarci di tutti i preconcetti della nostra società: la comodità, il “buonismo”, la facile solidarietà, la paura di rimaner “contagiati” nell’imbattersi nell’altrui povertà materiale. Occorre predisporci con un cuore più libero dai pregiudizi e perdere un po’ della solita sopravvalutazione di noi stessi, noi che siamo sempre disposti a vedere l’Altro uguale a noi. Sono convinto che le motivazioni che ci devono spingere a intraprendere un simile viaggio, non sono quelle di voler vivere una vacanza, un fare un tour di un’agenzia di viaggi qualunque, magari un’occasione economica di un viaggio a condizioni vantaggiose perché organizzato da una associazione Onlus. La vera motivazione dovrà essere sempre la stessa: l’opportunità di mettere noi stessi alla prova, per misurare la nostra capacità di amare e metterci in discussione.

Per amare occorre dapprima cambiare il proprio cuore perché non è importante quanto materialmente si da, ma come e in che modo si può dare. Solo allora possiamo avere la speranza che una vita nuova stia davvero rinascendo in noi. Al contrario si rischia di assumere l’atteggiamento fastidioso e distaccato di chi si reca a visitare un paese come un altro, un semplice “turista per caso”, un viaggiatore distratto che guarda con freddo distacco, invece di un uomo umile e attento che parte dalla verità del suo cuore per poi allargarlo alla gratitudine verso il mondo intero.

Enzo Ferrante

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